La vera storia di Matteo Sinagra [Parte 1]


L’ attore Matteo Sinagra era un uomo preciso, prudente e previdente. E malaticcio. Questa cagionevole salute e il frequente stato di scoramento e sconforto per gli inesistenti progressi della sua carriera artistica l’avrebbero condotto presto alla tomba ancora nel fiore degli anni. Così almeno lui temeva.
Aveva, di conseguenza, pensato per tempo al suo epitaffio, ci teneva tanto:

Giova il sapere al corpo che ti langue?
Val ben meglio un’oncia di buon sangue
che tutta la saggezza sonnolenta

Non crediate che fosse un presuntuoso a tramandare alle generazioni future questa storia della “saggezza sonnolenta”. Lui era un attore colto per i suoi tempi, leggeva tanti libri, soprattutto commedie, drammi e tragedie, conosceva tutto Shakespeare, e l’ ”Amleto” a memoria, in attesa della buona sorte o di una sostituzione fortunata nel caso di qualche improvvisa malattia o decesso inaspettato di uno dei suoi colleghi. Ma leggeva anche poesie e romanzi. Si era ostinato a voler imparare il russo, per via di quel certo Stanislavskij e del suo volume “Il lavoro dell’attore”, ma con scarsi risultati.
Gli piaceva anche quel “sonnolenta” perché in realtà le sue letture preferite le consumava disteso sul lettuccio, in uno di quegli alberghi di infima categoria, gli unici che si poteva permettere, e così tra un dramma di Ibsen e una commediola di Cechov, si addormentava felice.

Sicuramente Guido Gozzano, a cui aveva rubato quella citazione, non sarebbe stato molto contento, ma era morto già da 4 anni, quando Matteo Sinagra, che allora aveva trent’anni, cominciò a pensare alla perfezione di quei versi sulla sua lapide.
Gli venne un dubbio. Essendo solo, senza parenti, o meglio, sì, una sorella con la quale aveva interrotto i rapporti da tempo, proprio per colpa di quella insulsa ostinazione a voler fare l’attore, senza oltretutto averne le qualità. Così almeno sosteneva la sorella. La quale non si sarebbe di certo fatta viva a reclamarne il corpo, vista l’assoluta indigenza nella quale versava il nostro amico. Lei abitava al Lido di Venezia, per via di un matrimonio d’interesse contratto con un commesso viaggiatore di articoli religiosi, incontrato casualmente in sacrestia dopo la Santa Messa.

Il dubbio era che quell’epitaffio fosse ritenuto troppo lungo dal marmista, o semplicemente incomprensibile, o bizzarro, tanto da indurlo a rifiutarsi di incidere tale stupidaggine. Così sul comodino, appoggiato a un vocabolario Melzi, edizione 1912, c’era il suo testamento, scarno al punto da essere scritto sul retro di una cartolina su cui faceva bella mostra di sé uno schizzo a colori del teatro Valle di Roma. Ora ci limitiamo a leggere il postscriptum:
Se non vi piace il mio epitaffio o se lo ritenete troppo lungo, o se non ci sta, vi prego di sostituirlo con

Domani, purtroppo, niente repliche”.

C’era anche una noterella in fondo, là dove di solito si scrive il nome della città a cui indirizzare la cartolina:

I soldi del vostro disturbo stanno in B5, pavimento della camera da letto. Alzate la mattonella, di per sé già sollevata per la muffa.

Matteo Sinagra amava molto giocare a battaglia navale, nei camerini, insieme a qualche collega sfortunato quanto lui, in attesa di entrare in scena, per recitare quelle poche battute che di volta in volta il capocomico gli assegnava.
Ma di quale comodino stiamo parlando? Nel suo paese natio, in Piemonte, nonostante le origini chiaramente siciliane della sua famiglia, conservava una casa, o meglio una catapecchia, dove tornava molto saltuariamente, due o tre volte l’anno, quando le compagnie andavano riformandosi, ad esempio a cavallo della quaresima incipiente, il cosiddetto mercoledì delle ceneri, oppure, per Natale, il momento più brutto dell’anno certamente. I capocomici non volevano saperne di recitare fra Natale e Capodanno. Non si preoccupavano certo delle conseguenze che tale decisione provocava sulla psiche di Matteo Sinagra. La prima cosa che gli avevano insegnato era che non esistono feste per gli attori e i teatranti. Giustissimo. E allora perché quest’affronto così sfacciato? Un controsenso, un’incongruenza inspiegabile. Come era lunga da passare quella settimana. Leggeva, passeggiava, e ripassava l’Amleto.