
Matteo Sinagra era nato l’11 luglio. L’anno è inutile scriverlo, intendo quello di quando ebbe quella bella pensata dell’epitaffio. Certamente, conoscendo tutti voi la data della morte del poeta Guido Gozzano, già sapete che si sta parlando del 1920.
Era riuscito a entrare miracolosamente nella compagnia di Ermete Zacconi, poco prima della guerra, anche se solo come servo di scena, per approdare poi a particine di cameriere e maggiordomo. Se vi viene in mente la scontata battuta
“Signore e signori, il pranzo è servito”
non siete lontani dal vero. Alle volte lo si sorprendeva a scuotere la testa in un movimento lento e costante che poteva durare anche cinque minuti buoni e con un certo qual sorriso ingenuo sulle labbra. Succedeva quando gli tornava in mente la sfrenata contentezza di quel famoso giorno in cui il commendatore lo chiamò in camerino per annunciargli che sarebbe entrato in scena per la prima volta. In realtà doveva limitarsi a reggere una alabarda nella scena iniziale di Re Lear, quella dove il commendatore, pardon, il re annuncia:
“Sappiate che abbiamo suddiviso il nostro regno in tre parti”.
Era come se avesse avuto un biglietto omaggio per le prime file, stare a contatto con gli attori e ascoltare soprattutto il commendatore in quel primo monologo. Quel sorrisino che verso la fine dei cinque minuti prendeva una piega leggermente beffarda, stava a significare che non aveva fatto in realtà molti progressi da allora. La testa andava da destra a sinistra e poi da sinistra a destra, tutto sommato un buon esercizio per i muscoli del collo, e nella sua mente ripeteva alle volte la prima battuta della sua carriera artistica:
“La notte è lunga quando non ci si diverte”.
Era il ruolo, se così possiamo chiamarlo, senza suscitare moti di scherno, di un secondino che portava l’alabarda nel terzo atto de “La pazzia di Isabella” una commedia sulla compagnia della grande attrice Isabella Andreini, i cui attori erano stati imprigionati per aver recitato la farsa dei tre gobbi davanti al duca di Mantova. Gobbo pure lui.
Il sorriso ora era tornato solare, perché si ricordava quanto faticasse a non ridere difronte ai lazzi e alle fantastiche invenzioni dei suoi colleghi, se così possiamo chiamarli, senza offenderli, né suscitare moti di sarcasmo. In quella commedia, oltre a quell’unica battuta, aveva vari cambi di costume e altrettante entrate in scena come comparsa. Oltre che con la sua amata alabarda, entrava una volta con la spada, un’altra con un vessillo dei Gonzaga, un’altra con uno scrigno, oggetto fondamentale per quella commedia, che sarebbe pleonastico spiegarvi, quasi volessi insinuare che non la conoscete.
Ma Matteo Sinagra continuava a leggere e a scovare autori stranieri sconosciuti quasi a tutti. Fu così che un giorno entrò nel suo camerino al terzo piano il commendatore in persona…
A fare cosa, direte voi? Un avvenimento così meraviglioso necessita da parte vostra un po’ di fremente pazienza, il tempo di spiegare la storia del camerino al terzo piano. Intanto affermare come scritto qui sopra “suo camerino” è un po’ ottimistico e apertamente falso, visto che erano in cinque: oltre a lui, i due macchinisti, il trovarobe e il suggeritore Filippo Prosdocimi, di una nobile famiglia di attori caduta leggermente in disgrazia. Ci si muoveva a stento in quella stanzetta. Non c’era neppure il suo nome sulla porta, un po’ perché lui non aveva osato chiedere all’amministratore Eugenio Casilini di apporlo per non dispiacere i macchinisti etc etc, un po’ perché forse meglio cadere nell’anonimato che far sapere al mondo intero che Matteo Sinagra aveva il camerino al terzo piano. Intanto c’era da fare un bel viaggetto per giungere alla meta, cioè in palcoscenico. Poiché il camerino stava in fondo in fondo, c’era da fare corridoio scale, corridoio scale, corridoio scale, retro palcoscenico e finalmente in quinta. Per uno che doveva entrare con alabarde e vessilli assortiti a ogni piè sospinto, una bella faticaccia. Ma un buon esercizio soprattutto per polpacci e giunture.
Ma allora per quale motivo il commendatore si era avventurato in un luogo impervio come il terzo piano, che alle volte lui chiamava con elegante ironia “landa desolata” citando il suo adorato Lear?
Il fato volle che, una sera, dopo una straordinaria recita di Macbeth in cui forse aveva preteso troppo dai suoi mezzi vocali e atletici, gli succedesse un lievissimo mancamento durante i ringraziamenti finali.
“Niente di cui allarmarsi. Solo un po’ di stanchezza…” stava dicendo al fido segretario, quando si materializzò tra le quinte, davanti al suo camerino, il dottor Torvaldo Rank, di chiari origini scandinave, ma ormai italiano d’adozione, avendo sposato in seconde nozze la signora Nora, conosciuta durante una vacanza marittima, del segno del Cancro, da tutti invidiata per la sua straordinaria collezione di bambole. Grande estimatore del nostro, Il dottor Rank si era avventurato tra le quinte,in devoto pellegrinaggio, per ottenere la grazia di un agognato autografo.
Voi sapete dove ha il camerino il commendatore? Subito dietro la prima quinta: due passi ed è già in scena. Anche la signorina Celestina Paladini, la prima attrice, dirimpetto al commendatore, per entrare in palcoscenico non deve fare più di tre passi. Non due come il nostro caro Ermete, e non per via del fatto che lui è più possente ed è di gamba lunga, mentre la signorina Celestina Paladini è minuta, stile Eleonora Duse, perché così va di moda adesso. Il fatto che la signorina dovesse fare un passo in più rendeva sempre il commendatore di un buon umore un tantino sadico, all’inizio di ogni spettacolo. Se ne compiaceva come se fosse una legge non scritta, ma da osservare scrupolosamente.
Allora il dottore porse un impegnativo biglietto da visita per ottenere su di esso la firma che avrebbe conservato come reliquia. “Vedo che voi siete un dottore. Sedete.”
A Torvaldo Rank non sembrò vero di ottenere udienza nel maestoso e scenografico camerino di Ermete Zacconi.
“Non vi siete accorto di nulla?” Dopo una lunga pausa, forse più lunga di quelle che il commendatore era solito fare prima di attaccare “Essere o non essere”, il dottore rispose con un certo imbarazzo esitante, convinto di star per dire una castroneria:
“Di tutto mi sono accorto, soprattutto della vostra immensità”.
“Lasciate perdere queste smancerie. Stupidaggini. Allora vuol dire che non vi siete accorto di niente”. Il dottore trasalì e molto rapidamente pensò e convenì che forse sarebbe stato meglio limitarsi a guardare le stelle da lontano e fantasticare, invece di volerle toccare e finire per bruciarsi.
“Durante i saluti finali, avrete notato che ho dovuto appoggiarmi per qualche secondo alla Paladini e al signor Stecchetti?”
“La vostra benevolenza non ha limiti”, azzardò Torvaldo.
“Neanche per sogno. Stavo per cadere. Un tentativo di svenimento. Si tolga il cappotto”.